Nutrie... facciamo un po' di chiarezza...



Ispirandomi alla campagna LAV sulla nutria ecco qualche informazione oggettiva sulla nutria:

Ciao, sono la nutria, lo sai che:


- il mio vero nome è proprio NUTRIA (e non coypu come sostengono alcuni) ma mi chiamano/chiamavano anche castorino; se coypu va bene (è il nome comune in lingua inglese) allora potreste anche chimarmi "Biberratte" ( se piace il tedesco) o "ragondin" (in francese).

- non sono parente del ratto o del topo ma nemmeno appartengo alla famiglia dei castori. I miei parenti più stretti (Hystricomorpha) sono altri roditori come, ad esempio, l’istrice o il porcellino d’India.
- In Brasile, Argentina e Perù sono un animale da compagnia come lo può essere un capriolo per te. In Argentina sono una specie cacciabile con tanto di regolamentazioni previste sul commercio delle carni( sono un piatto tradizionale, ad esempio, nella provincia di Santa Fe).
- posso essere infettata da ceppi di Leptorspirosi (es. per il Veneto: gli studi dell’ “ Istituto zoo profilattico delle Venezie” o del “Consorzio di bonifica pedemontano Brenta”) favorendo la diffusione di questa malattia
- mi nutro prevalentemente di vegetazione acquatica ma, per lo meno al di fuori del mio areale nativo, posso cibarmi, in inverno, anche di molluschi d’acqua dolce. Per alimentarmi danneggio inoltre le colture di mais, soia, barbabietole, frumento ed altro. In ambienti naturali è assai forte il mio impatto sulla vegetazione palustre potendo causare la scomparsa di alcune specie (ninfea, canna di palude, ecc)
- la legge mi tutela perché il legislatore italiano non possiede basilari nozioni naturalistiche o di biologia o di ecologia, ignorando del tutto il significato di autoctono ed alloctono nonché il problema della conservazione degli ecosistemi e della perdita di biodiversità a livello locale e globale.


Finalmente ce l'abbiamo fatta! 400 ppm .... :'(


Riporto qui di seguito l'articolo "Effetto serra, vicini al punto di non ritorno" di Luca Mercalli, apparso su "La Stampa" il 6 maggio 2013.


"Quattrocento parti per milione di biossido di carbonio (CO2) nell'atmosfera terrestre. Sembra un'informazione priva di interesse, e invece costituisce un dato epocale. E' la simbolica soglia toccata, per la prima volta da almeno 3 milioni di anni, dalla concentrazione di questo gas a effetto serra, il più importante tra quelli artificialmente incrementati da un'umanità sempre più vorace di combustibili fossili. Come dire che su un milione di molecole d'aria che respiriamo, 400 sono di CO2, un livello non certo tossico per il nostro organismo - lo diviene oltre circa 5000 parti per milione (ppm) - ma per il sensibile clima terrestre sì, soprattutto se a controllarlo  sono le energivore attività umane in un pericoloso esperimento globale ormai sfuggito di mano.
Secondo le indagini geochimiche l'ultima volta che si erano toccati livelli comparabili era durante ilPliocene, tra circa 3 e 5 milioni di anni fa, quando la nostra specie non era ancora comparsa, la Terra era più calda di 2-3 gradi rispetto a oggi, i livelli marini più
elevati di 25 metri
.
Ricostruzione della concentrazione atmosferica di CO2 negli ultimi 65 milioni di anni: in un lontano passato geologico ci sono stati periodi in cui questo gas serra era enormemente più abbondante di oggi, ad esempio tra il Paleocene e l'Eocene, attorno a 50-55 milioni di anni fa (fino a circa 2000 ppm), ma questo confronto non può rassicurarci in merito alla situazione attuale... Allora, infatti, il pianeta era completamente diverso, con un differente assetto geologico, climatico e ambientale, e nemmeno la specie umana esisteva, mentre oggi viviamo in un pianeta sempre più sovraffollato, a corto di risorse naturali e afflitto da molteplici criticità ambientali, demografiche, sociali, economiche e alimentari che rendono l'umanità fragile di fronte a bruschi cambiamenti climatici.
Durante il Pliocene (tra circa 3 e 5 milioni di anni fa, freccia rossa) si raggiunsero, per l'ultima volta prima di oggi, concentrazioni di CO
2 prossime a 400, talora 500 ppm
(Fonte: www.alpineanalytics.com).
Andamento del rapporto isotopico dell'ossigeno-18 (18O) nei gusci carbonatici dei foraminiferi, fino a 7 milioni di anni fa. Valori inferiori (più in alto nel grafico) rispecchiano temperature atmosferiche ed oceaniche più elevate, e viceversa. Si noti come durante tutto il medio Pliocene, intorno a 3-3,5 milioni di anni fa, il clima terrestre fosse più caldo di oggi, in seguito si è raffreddato e le oscillazioni tra fasi glaciali e interglaciali si sono fatte più ampie nell'ultimo milione di anni
(fonte: 
http://eps.ucsc.edu/).

Anomalie delle temperature superficiali del mare (SST) durante il Pliocene:
quasi ovunque, salvo sulla fascia equatoriale, le acque erano più calde di oggi,
fino a oltre + 5 °C sull'Atlantico settentrionale (fonte: PRISM).
Ricostruzione delle anomalie termiche artiche nel Pliocene rispetto a oggi, elaborata nell'ambito del gruppo di ricerca PRISM (Pliocene Research, Interpretation and Synoptic Mapping), e confronto con dati paleo-ambientali.
Gran parte della regione artica sperimentava temperature fino a 10-15 °C più elevate (a fronte di una media globale di 2-3 °C in più rispetto all'attuale), a conferma della forte sensibilità climatica delle alte latitudini boreali.
Evidenze di foreste sempreverdi sono attestate perfino nel Nord della Groenlandia
e nell'arcipelago delle Svalbard, ben al di là dell'odierno limite degli alberi.

Uno scenario che suggerisce ciò che potrebbe diventare il clima terrestre nei prossimi decenni, e ce ne sarebbe abbastanza da metterci in crisi, come da 40 anni ammoniscono climatologi e biologi.
Nulla di nuovo per il pianeta, ma per la specie umana sì. E tanto più che l'attuale presenza di CO2nell'aria non è certo stabilizzata qui: nonostante i timidi tentativi internazionali di riduzione delle emissioni serra, continua a crescere ormai di quasi 3 ppm all'anno e rischia di proiettarciverso un riscaldamento atmosferico e una degradazione ambientale senza precedenti.
Peraltro la soglia ritenuta di sicurezza dagli scienziati, da non superare per scongiurare cambiamenti climatici irreversibili, è quella di 350 ppm, già raggiunta nel 1986, e l'attuale superamento delle 400 ppm rappresenta dunque l'ulteriore campanello di un allarme troppo poco ascoltato che suona ormai da decenni.
Le misure più utilizzate della concentrazione atmosferica di biossido di carbonio provengono dall'osservatorio del Monte Mauna Loa, a quota 3400 metri nelle Hawaii, e sono attive fin dal 1958. Là, in mezzo al Pacifico, lontano dalle grandi aree urbane di emissione, si trovano infatti le condizioni ideali per analizzare campioni d'aria rappresentativi dell'atmosfera globale, dato che le molecole di CO2, avendo una permanenza di oltre un secolo, hanno tutto il tempo di diffondersi omogeneamente a scala planetaria.
Panoramica dell'osservatorio del Mauna Loa (da NOAA-ESRL).
Cinquantacinque anni fa, in un'epoca in cui solo pochi pionieri delle scienze del clima parlavano di effetto serra, fu Charles David Keeling, dottorando al California Institute of Technology, insieme a Roger Revelle, oceanografo e direttore della Scripps Institution of Oceanography a San Diego, a portare avanti la battaglia per avviare e mantenere quelle misure continuative a lungo termine, tra difficoltà logistiche e finanziamenti a singhiozzo. All’inizio della loro avventura scientifica la concentrazione di biossido di carbonio era di 316 parti per milione, già in aumento rispetto alle 280 dell'era preindustriale, ma chissà se immaginavano la drastica impennata che ci ha portati fin qui.
La crescente “curva di Keeling”, così è stato battezzato il grafico del CO2 a Mauna Loa dal 1958 a oggi, è uno dei simboli più evidenti della capacità umana di alterare l'ambiente, e se ne può seguire l'andamento giorno per giorno su http://keelingcurve.ucsd.edu/. La sua tipica fluttuazione stagionale, una sorta di “respiro della Terra”, dovuta alla temporanea cattura di CO2 da parte della fotosintesi delle grandi foreste boreali, farà sì che tra qualche giorno la linea inizierà ad abbassarsi, fino a ottobre, di qualche parte per milione, ma la tendenza non cambia: in assenza di provvedimenti per la riduzione delle emissioni serra, l'umanità si sta pericolosamente affacciando su un territorio ignoto e nonostante tutto, troppo presa dal confrontare ogni giorno gli isterici cambiamenti dello spread e degli indici di borsa, sta incautamente sottovalutando indicatori fisici ben più rilevanti per le generazioni a venire e la conservazione della specie.”
La curva di Keeling realizzata con i valori medi mensili della concentrazione di CO2 al Mauna Loa, dal 1958 al 2013. La media di aprile 2013 è giunta a 398.3 ppm, e potrebbe toccare le 400 ppm in maggio (fonte: NOAA).
Andamento medio orario e giornaliero della concentrazione di CO2 all'osservatorio del Mauna Loa nell'ultimo mese (6 aprile – 5 maggio 2013). I valore medi orari hanno già superato le 400 ppm (401 ppm il 22 aprile 2013), mentre il valore giornaliero più elevato si è avuto per ora il 3 maggio 2013 con 399.8 ppm (Fonte: http://keelingcurve.ucsd.edu/)
Ma al di là di questi dettagli, il significato dei dati è lo stesso:
l'uomo sta alterando la composizione chimica dell'atmosfera con una intensità e rapidità epocali, minacciando di scatenare cambiamenti climatici e ambientali irreversibili in grado di perturbare la vivibilità del pianeta per le generazioni future.


La vera storia di Masaru Emoto...


Masaru Emoto è un sedicente scienziato giapponese che sostiene di aver scoperto che l'acqua memorizza ciò che le accade intorno. In pratica sostiene che facendo "ascoltare" musica e parole all'acqua, essa, una volta congelata, darebbe origine a cristalli di forma differente. Naturalmente la buona musica e le parole dolci originano cristalli belli e simmetrici. La musica brutta (evidentemente secondo i gusti di Emoto), quale la "Heavy Metal, e le parole "cattive" generano cristalli informi e disordinati.


Le teorie di Masaru Emoto sono semplicemente una fantasiosa variazione sul tema della memoria dell'acqua. Al pari di quest'ultima si tratta di una teoria priva di fondamento scientifico.E' significativo che Masaru Emoto abbia sempre rifiutato di sottoporre i suoi esperimenti a un controllo in doppio cieco. Nel 2003 la James Randi Educational Foundation ha lanciato a Masaru Emoto la famosa sfida del milione di dollari. Emoto non l'ha mai accettata.

Un dettagliato resoconto sul tema della memoria dell'acqua è il seguente (da "Realtà o illusione? Scienza, pseudoscienza e paranormale" Silvano Fuso (Edizioni Dedalo, Bari 1999), al paragrafo intitolato appunto "L'acqua con la memoria"):



L'acqua con la memoria

Il 30 giugno 1988, sulla prestigiosa rivista scientifica britannica Nature, comparve un articolo dal titolo "Human basophil degranulation triggered by very dilute antiserum against IgE".

L’articolo portava la firma di ben 13 autori (6 francesi, 3 israeliani, 2 canadesi e 2 italiani). Coordinatore del gruppo di ricerca era il biologo francese Jacques Benveniste, direttore dell’Unité 200 dell’Institut National de la Santé e de la Recherche Médicale (INSERM) di Parigi.

L’articolo riportava i risultati di uno studio effettuato su una particolare reazione biologica chiamata "degranulazione dei basofili". I basofili sono un particolare tipo di globuli bianchi, presenti in piccola percentuale nel sangue, che svolgono un ruolo importante nello sviluppo delle allergie. Quando i basofili vengono a contatto con anticorpi (prodotti dalla presenza di un allergene) essi liberano dai loro granuli intercellulari (da cui il nome di degranulazione) determinati mediatori chimici (la principale è l’istamina) responsabili delle manifestazioni allergiche.

L’articolo di Nature riportava i risultati di esperimenti in cui i basofili venivano posti a contatto con soluzioni, di diversa concentrazione, di particolari anticorpi (detti anti IgE, avvero anti immunoglobuline E).

Il risultato clamoroso riportato nell’articolo era il seguente: la reazione di degranulazione continuava a verificarsi anche quando la soluzione di anticorpi veniva fortemente diluita, fino a raggiungere una concentrazione di 10 -120 M (si legge dieci alla meno centoventesima molare).

Chi non ha dimestichezza con la chimica e la fisica non può rendersi conto del significato di un simile valore di concentrazione. Una breve spiegazione dovrebbe chiarire un po’ le cose.

In campo chimico la concentrazione di una soluzione viene spesso espressa in "molarità". Essa rappresenta il numero di moli di sostanza disciolta contenute in un litro di soluzione. La mole è una unità di misura chimica che corrisponde a un numero fisso di molecole, detto numero di Avogadro. Tale numero vale 6.02 · 1023 (il numero 1023 corrisponde a 1 seguito da 23 zeri, ovvero centomila miliardi di miliardi!). Potremo pertanto scrivere:

1 mole = 6.02 · 1023 molecole

In base a tale relazione, possiamo calcolare quante molecole di anticorpo sono contenute in un litro di soluzione di concentrazione 10 -120 M. Avremo:

10 -120 · 6.02 · 1023 = 6.02 · 10-97 molecole/litro

Questo numero è enormemente più piccolo di uno. Le molecole sono entità non frazionabili: se si frazionassero le molecole si distruggerebbe la sostanza. Di conseguenza una concentrazione pari a 6.02 · 10-97  molecole/litro implica che, per trovare una sola molecola di anticorpo, occorrerebbe considerare un volume d’acqua pari a:

1/(6.02 · 10-97 ) = 1.66 · 1096 litri

Per rendersi conto dell’enormità di tale valore, basti pensare che il volume d’acqua di tutti gli oceani è stimato nell’ordine di 1020 litri!.

Questi brevi calcoli portano a concludere che una soluzione di anticorpi di concentrazione 10 -120  M non è affatto una soluzione, ma semplicemente acqua pura.


Jacques Benveniste e i suoi collaboratori non erano evidentemente digiuni in fatto di chimica. Di conseguenza si erano perfettamente resi conto che nella "soluzione" di concentrazione pari a 10 -120  M, anticorpi non ce n’erano affatto.

Per spiegare il persistere della reazione di degranulazione da loro osservata a tali diluizioni, azzardarono allora un’ipotesi rivoluzionaria. Secondo la loro ipotesi la presenza degli anticorpi nella soluzione produrrebbe delle modificazioni nella struttura dell’acqua. Tali modificazioni strutturali permarrebbero nell’acqua anche quando, in seguito a ripetute diluizioni, ogni traccia di anticorpo venisse eliminata. In altre parole l’acqua manterrebbe una "memoria" delle sostanze che sono state preventivamente disciolte in essa, anche in seguito alla eliminazione di queste ultime per successive diluizioni. Tale ipotesi, se confermata, avrebbe rivoluzionato le conoscenze fisiche e chimiche.

Il contenuto dell’articolo di Benveniste e del suo gruppo era talmente clamoroso che la rivista Nature, prima di pubblicarlo, lo sottopose all’esame di numerosi "referees" (l’articolo arrivò a Nature il 24 agosto 1987 e venne accettato solo in data 13 giugno 1988). Alla fine accettò di pubblicarlo. Per non venir meno al proprio prestigio e serietà, tuttavia, Nature fece precedere l’articolo da un’introduzione dal titolo significativo "Quando credere all’incredibile" e aggiunse in coda all’articolo la seguente "riserva editoriale", che vale la pena riportare interamente:

I lettori di questo articolo devono essere informati della incredulità dei molti referees che hanno commentato le diverse versioni di esso, durante gli ultimi sette mesi. L’essenza del risultato è che una soluzione acquosa di un anticorpo mantiene la sua capacità di evocare una risposta biologica anche quando viene diluita a tal punto che vi sia una trascurabile probabilità di trovare una singola molecola in qualche campione. Non c’è nessuna base fisica per una tale attività. Con la gentile collaborazione del Prof. Benveniste, Nature ha pertanto predisposto indagini indipendenti per osservare la ripetibilità degli esperimenti. Un rapporto di tale indagine verrà pubblicato prossimamente.

Nonostante le riserve con cui Nature aveva pubblicato l’articolo, la notizia dell’"acqua con la memoria" si diffuse a macchia d’olio, superò ben presto il ristretto ambito scientifico e raggiunse il grosso pubblico.

Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, verso i primi di luglio dell’88, sui quotidiani di tutto il mondo apparvero articoli sull’ acqua con la memoria. Anche i quotidiani italiani non mancarono all’ appello. Vennero addirittura pubblicate interviste a vari ricercatori che proponevano complesse teorie per interpretare il meccanismo secondo il quale l’acqua manterrebbe la sua memoria. Non mancarono, tuttavia, anche articoli critici di esponenti del mondo scientifico che esprimevano perplessità.

Un tale clamore al di fuori degli ambienti scientifici e il massiccio coinvolgimento dei mass-media doveva avere una causa. Come mai una notizia che apparentemente avrebbe dovuto interessare il ristretto gruppo dei ricercatori chimico-fisici fu così pubblicizzata presso il grosso pubblico?

La risposta è semplice. Se i risultati delle ricerche di Benveniste e del suo gruppo si fossero rivelati veri, essi avrebbero costituito la base teorica di una terapia alternativa alla medicina ufficiale, guardata con perplessità da quest’ultima, ma estremamente diffusa e di moda presso il grosso pubblico: l’omeopatia.

L’omeopatia venne introdotta verso il 1790 dal medico tedesco Christian Samuel Hahneman (1755-1843). Rifacendosi alle dottrine di Ippocrate (IV sec. a.C.) e di Paracelso (1493-1541), Hahneman ripropose il principio secondo il quale è possibile curare una malattia somministrando un estratto diluito della sostanza che è causa della malattia stessa: similia similibus curantur, ovvero il simile cura il simile (omeopatia deriva da homeo=simile e da pathos=malattia).

Questo principio non è mai stato dimostrato ma, a parte questo, ciò che lascia maggiormente perplessi nei confronti dell’omeopatia sono le diluizioni estreme con cui vengono preparati i farmaci omeopatici. Partendo da un certo principio attivo (generalmente di origine vegetale), lo si diluisce progressivamente di un fattore 10 (DH1) o 100 (CH1). Ogni diluizione è seguita da una accurata agitazione del prodotto. Nella omeopatia è comune raggiungere diluizioni con fattori DH30 (10-30) e CH30 (10-60).

Le obiezioni sono le stesse viste precedentemente a proposito delle soluzioni di anticorpi di Benveniste. Un farmaco omeopatico con fattore di diluizione CH30 (10-60) non contiene più alcun principio attivo, ma solamente acqua…fresca.

Dicevamo che l’omeopatia è di moda e il mercato dei farmaci omeopatici è fiorente. Da anni gli omeopati si battono affinché la loro disciplina venga riconosciuta dalla medicina ufficiale. Si capisce pertanto come mai l’articolo di Benveniste suscitò tanto clamore anche al di fuori dell’ambiente scientifico. Se l’acqua avesse effettivamente una memoria, le obiezioni nei confronti dell’omeopatia sarebbero confutate e tale disciplina avrebbe finalmente il tanto agognato riconoscimento scientifico.

Senza lasciarsi influenzare dal clamore suscitato, la redazione di Nature nominò una commissione di indagine che, come preannunciato, avrebbe dovuto verificare la riproducibilità degli esperimenti di Benveniste e collaboratori.

La commissione era composta da tre persone: John Maddox, direttore di Nature, Walter W. Steward, ricercatore dell’Istituto Americano della Sanità ed esperto in frodi scientifiche e James Randi. Quest’ultimo è un personaggio singolare. Illusionista di professione è divenuto celebre in tutto il mondo per le sue indagini nel campo del presunto paranormale (ha, ad esempio, smascherato il famoso paragnosta israeliano Uri Geller, come vedremo nel capitolo 10). Specializzatosi nello scoprire trucchi e inganni, i suoi meriti sono stati ampiamente riconosciuti dal mondo scientifico.

La commissione di Nature trascorse una settimana presso il laboratorio del Prof. Benveniste, a Parigi, immediatamente dopo la pubblicazione dell’articolo (il soggiorno iniziò il 4 luglio). Il resoconto del lavoro svolto e le conclusioni tratte vennero pubblicate dalla stessa Nature in data 28 luglio 1988 in un rapporto dal titolo significativo: "High-dilution experiments: a delusion".

La lettura del rapporto è piuttosto interessante e divertente. Innanzi tutto i membri della commissione vennero a conoscenza del fatto che due dei collaboratori di Benveniste erano stipendiati grazie a un contratto stipulato tra l’Institut National de la Santé e de le Recherche Médicale e la casa farmaceutica Boiron et C., specializzata in prodotti omeopatici. Era una scoperta sospetta, ma di per sé non determinante.

La commissione esaminò accuratamente gli appunti di laboratorio (messi a disposizione senza alcuna difficoltà da Benveniste) e cercò di ripetere gli esperimenti più significativi con procedure "a doppio cieco". I risultati di Benveniste non furono riprodotti. La commissione scoprì che negli esperimenti di Benveniste e collaboratori venivano considerati significativi soltanto quei risultati che confermavano le aspettative, mentre erano stati eliminati tutti quei risultati in disaccordo con esse. Tenendo conto di tutti i risultati (positivi e negativi) si otteneva un andamento in perfetto accordo con le previsioni statistiche. Di conseguenza non esisteva nessuna evidenza che dimostrasse la presunta memoria dell’acqua.

In coda al rapporto della commissione di indagine, Nature, nel numero del 28 luglio 1988, pubblicò la replica di Jacques Benveniste. In questa replica, Benveniste, fortemente irritato, accusò la commissione di dilettantismo. Criticò soprattutto la presenza di James Randi (specialista nello smascherare trucchi fraudolenti), che venne da Benveniste interpretata come una messa in discussione della propria onestà e correttezza deontologica. Egli usò parole grosse, paragonando l’inchiesta cui era stato sottoposto alla persecuzione delle streghe di Salem e al macarthysmo. Egli concluse la replica affermando:

Forse ci siamo sbagliati tutti in buona fede. Questo non è un crimine, ma scienza.

E rimandava la questione a ulteriori giudizi futuri.

Da tutta questa storia appare quasi con certezza che la buona fede di Benveniste fosse autentica. Egli può essere soltanto accusato di leggerezza, superficialità e ingenuità nell’accettare per buoni i risultati dei suoi collaboratori. Ma soprattutto Benveniste può essere accusato di non aver applicato la regola fondamentale, già ricordata, secondo la quale "affermazioni straordinarie richiedono prove altrettanto straordinarie". Non si possono fare con leggerezza affermazioni che sconvolgono l’intero scibile umano, senza preoccuparsi di trovare dati ed evidenze che confermino, al di là di ogni dubbio, tali affermazioni.

Con il suo consueto linguaggio colorito, James Randi, in fondo al rapporto della commissione, riportò il seguente esempio:

Se io affermo di avere una capra nel mio giardino, molti di voi non avrebbero difficoltà a credermi e potrebbero accontentarsi della testimonianza di un vicino. Ma se affermassi di avere un "unicorno" nel giardino, quanti si accontenterebbero di una semplice testimonianza di un vicino?
Abbiamo visto l’enorme clamore suscitato dai mass-media in occasione della pubblicazione dell’articolo di Benveniste. Ci si sarebbe aspettati un corrispondente clamore in seguito alla smentita delle sue affermazioni. Le cose purtroppo non andarono così. Andando a ricercare sugli stessi quotidiani che avevano pubblicizzato con grande enfasi la notizia originaria, nei giorni seguenti la pubblicazione del rapporto della commissione di Nature, chi scrive ha potuto trovare un solo breve articolo a due colonne (a firma di Francesco Barone) che riportava il resoconto dell’inchiesta. Addirittura in data 3 agosto 1988 (il rapporto della commissione è del 28 luglio) il supplemento TuttoScienze della Stampa pubblicava un articolo dal titolo "Acqua: la memoria chimica non è l’unica stranezza" (di Federico Bedarida) in cui la memoria dell’acqua veniva considerata con prudenza, ma senza tanta meraviglia, viste le numerose anomalie chimico-fisiche di questa sostanza così comune (solo una piccola nota del redattore informava che Nature aveva pubblicato un rapporto che confutava la tesi di Benveniste).

Questo comportamento dei mass-media è purtroppo abbastanza frequente: le notizie sensazionalistiche trovano spazi smisurati mentre le successive smentite vengono quasi ignorate o trovano, al più, spazi minimi. Questo accade in tutti i settori, ma in campo scientifico è un atteggiamento estremamente pericoloso e diseducativo. Visto che la maggior parte delle persone riceve le proprie informazioni scientifiche dai mass-media e non dalle fonti originali, è auspicabile che questi ultimi adottino una maggiore prudenza, serietà e competenza.

Il video che tutto il mondo dovrebbe vedere...

Esiste un vortice di rifiuti grande ormai quanto la penisola iberica che galleggia nell’Oceano Pacifico.

Lì il gioco delle correnti raduna la plastica proveniente da tutto il mondo; il sole e le onde sminuzzano gli oggetti e il mare somiglia ad un minestrone di immondizia.

Chris Jordan ha visitato negli ultimi anni le isole Midway, nel cuore del vortice, a 2000 miglia dalle terre emerse più vicine...





Il falso mito dell' edera assassina...

Sentendo sempre più spesso parlare di certe specie vegetali autoctone come di "piante da rimuovere perchè dannose", riporto questo bel brano (tratto da Mitologia degli alberi, J. Brosse, Rizzoli, 2007) che, con un pò di vera botanica, smantella l' errata credenza dell'edera assassina. L'edera non uccide gli alberi sui quale cresce! Anzi è molto più importante di quel che si pensa..



L’edera comune (Hedera helix) è un arbusto rampicante che viene spesso distrutto, perché “accusato” di essere specie parassita che danneggia e degrada il bosco. È falso! L’edera svolge un ruolo ecologico di fondamentale importanza per l’equilibrio del bosco e per la fauna. Innanzitutto, è bene ricordarlo, la Natura non fa nulla per caso. Ogni specie, anche la più sgradita e insignificate, occupa un posto chiave nelle complesse dinamiche ecologiche. Talvolta questo ruolo sfugge non solo alle persone comuni ma anche agli scienziati che, di frequente, sono costretti a rivedere le teorie più consolidate alla luce di nuove conoscenze. Molti agricoltori e operatori forestali sono convinti, ad esempio, che l’edera sia una specie “nociva” responsabile del soffocamento e del disseccamento degli alberi e per questo la recidono, credendo di fare un servizio utile al bosco. Sfatiamo un mito della scarsa conoscenza botanica e della cattiva gestione selvicolturale: l’edera non si nutre della linfa dell’albero, è un rampicante (come la vite) e ricerca nella pianta ospite solo il sostegno, un tutore cui avvolgersi. Tagliare l’edera è sbagliato per numerose ragioni. Eccole: - la copertura di foglie che avvolge i tronchi offre una eccellente ”coibentazione” agli alberi, proteggendoli dalle temperature rigide; - l’edera opera la selezione naturale del bosco. La possiamo definire come il “lupo degli alberi”, perché con il suo peso, contribuisce a far cadere gli esemplari meno resistenti o malati. Accelera così il processo di maturazione e di rinnovo del bosco. Le piante morte che cadono al suolo, diventano alimento per innumerevoli insetti xilofagi e funghi che si nutrono del legno in decomposizione sino al completamento del ciclo biologico; - I suoi fiori, sono di “enorme importanza per le api che li visitano assiduamente «bottinandovi» grandi quantità di nettare e polline. Fiori ancor più apprezzati in quanto sono disponibili proprio in settembre-ottobre quando mancano altre fioriture. “Secondo la Federazione apicoltori italiani, un ettaro coltivato ad edera (ammesso che ciò sia possibile) può fornire dai 200 ai 500 chilogrammi di miele ogni anno” (Fonte: Corriere della Sera, Fulco Pratesi); - la pianta offre rifugio a numerose specie di uccelli che di frequente vi nidificano; - le bacche di edera sono consumate da numerose specie di uccelli (tordi, merli, storni ecc) che, in determinate stagioni dell’anno, si nutrono quasi esclusivamente dei suoi frutti. Sopprimendo l’edera viene meno un’indispensabile fonte trofica per l’avifauna e si determina un impoverimento drastico della fauna dei boschi; - le foglie dell’edera, sempreverdi, sono appetite da rare specie di farfalle (falena dell’edera, Celastrina argiolus) e da animali erbivori come cervi, daini, caprioli soprattutto nella stagione invernale, quando scarseggiano altre fonti alimentari; - le foglie, cadendo al suolo, si decompongono rapidamente e formano humus di buona qualità; L’edera è, infine, una pianta utilizzata a fini erboristici. Contiene saponine, tannino, resine e sali minerali; è espettorante, emmenagoga e antureumatica. A uso cosmetico l’infuso aggiunto all’acqua del bagno è astringente e coadiuva cure anticellulite; utilizzato per sciacquare i capelli dopo lo shampoo, li rende lucidi e scuri. Attenzione, però, le bacche sono tossiche se ingerite, soprattutto per i bambini. Descrizione. Pianta molto rustica e sempreverde, con foglie di colore verde scuro, che può raggiungere i 20-30 m. Ha rami sterili caratterizzati da radici aree e foglie a 3-5 lobi spesso screziate di bianco; i rami che portano i fiori non hanno radici aeree e le foglie sono intere e con forma ovato-romboidea. I fiori, piccoli, giallo-verdastri, riuniti in racemi terminali, compaiono in estate e, nella primavera successiva, danno origine a bacche globose di colore nero-bluastro. Molto comune, specie in boschi e siepi, dal mare alla zona montuosa fino ai 1.000-1.500 m di quota. Viene spesso coltivata come pianta ornamentale con diverse varietà selezionate. Mitologia: “L’edera è la pianta prediletta da Dioniso. Il dio veniva spesso chiamato “l’Incoronato di Edera” o anche Kissòs. l’edera. Questa liana, l’aveva salvato due volte a Cadmo. Poco dopo la sua nascita, le ninfe lo immersero nella fonte Kissusa, dell’edera, ed è sul monte Elicona (hélix è un altro nome dell’edera) che venne allevato”.

Fonte: Mitologia degli alberi, J. Brosse, Rizzoli, 2007.

Il fatto più sorprendente...



Il fatto più sorprendente...

Il fatto più sorprendente è sapere... che gli atomi che compongono la vita sulla Terra, gli atomi che costituiscono il corpo umano sono riconducibili a croglioli che hanno cucinato elementi leggeri facendoli diventari elementi pesanti, nel loro nucleo a pressioni e temperature estreme. Quelle stelle, quelle di massa elevata, divennero instabili alla fine dei loro giorni colassarono e poi esplosero spargendo le loro interiora arricchite attraverso la galassia... viscere composte di carbonio, azoto, ossigeno e tutti gli ingredienti fondamentali della vita stessa. Questi ingredienti diventano parte di nubi di gas le quali condensano, collassano, creano la successiva generazione di sistemi solari: stelle con pianeti orbitanti. E questi pianeti ora contengono gli ingredienti della vita stessa. Quindi quando guardo il cielo notturno e so che sì, siamo parte di questo universo, siamo in questo universo, ma forse più importante di entrambi questi fatti è che l'Universo è in noi.





Test per intolleranze alimentari? No, grazie!

 di Giorgio Pitzalis (Medico Pediatra Nutrizionista da www.giustopeso.it)

Il filosofo Ludwig Feuerbach aveva ragione: noi siamo quello che mangiamo. Il problema è che mangiamo troppo e senza troppa attenzione alla qualità. Parliamo di junkfoods: un panino di grano tenero con prosciutto e senape  contiene non meno di tredici additivi (emulsionanti, agenti trattanti, stabilizzatori, regolatori di acidità), indicati sulla confezione con una «E» seguita da un numero; un pacchetto di patatine contiene esaltatori di sapidità (glutammato monosodico e ribonucleotide di sodio); una lattina di bevanda gassata all'arancia contiene solo l'8% di succo d'arancia e il resto è sciroppo di glucosio-fruttosio, zucchero, aspartame, saccarina, conservante, aroma e colorante.
Così, ogni anno, nei paesi industrializzati, finiscono nell’organismo di ognuno di noi 6-7 chili di additivi alimentari. Di questi solo il  10% servono alla conservazione del cibo. Il restante 90% è rappresentato da quelli conosciuti come “additivi cosmetici”: aromatizzanti, coloranti, emulsionanti (per rendere il cibo più  omogeneo nella nostra
bocca), addensanti e dolcificanti. Sono queste le sostanze che più preoccupano e che possono determinare disturbi alla nostra salute. Infatti sintomi come cefalea, alitosi, irritabilità, sonnolenza, prurito, tosse, insonnia, dolori addominali, afte, diarrea (e molte altre) sono sempre più frequenti. La soluzione sarebbe scontata: imparare a mangiare. Ma forse è troppo banale o troppo difficile. E’ a questo punto che veniamo colti da un dubbio sempre più diffuso: e se avessi una intolleranza alimentare? Ed ecco che il “tam tam” ci
conduce di fronte a medici o presunti tali che ci sottopongono a test singolari e ci propinano le diete più bislacche. Sempre più frequentemente capita di vedere pazienti (adulti e bambini) sottoposti ad indagini "non convenzionali" per la diagnosi di allergia e/o intolleranza alimentare. La maggior parte delle volte èstato il classico "passa parola" a suggerire ai pazienti l'approccio a tale  metodiche; purtroppo a volte sono proprio i medici a indirizzare i malcapitati verso “le  brughiere” delle intolleranze alimentari.
Queste, per la medicina ufficiale, individuano tutte le reazioni avverse ad un alimento non dovute ad azione tossica e che, a differenza dell'allergia, si verificano senza il coinvolgimento del sistema immunitario (meccanismi farmacologici, enzimatici o sconosciuti). Ne consegue che questa diagnosi viene applicata ai disturbi più vari: irritabilità, insonnia, inappetenza, obesità, scarsa crescita, malessere, ecc., in cui quasi mai c'è alcuna evidenza scientifica di rapporto causale con  gli alimenti. Diversi sono i test che non hanno ragione di esistere: 1)  test kinesiologico -valutazione "soggettiva" della forza muscolare mentre il paziente  tiene in mano un contenitore di vetro con l'alimento da testare. 2) Test di provocazione/neutralizzazione - sottocutanea o sublinguale: consiste nella somministrazione dell'alimento sospetto, per la stessa via e a dosi molto inferiori di quelle che nella prima fase hanno evocato la sintomatologia, allo scopo di neutralizzarne
i sintomi. 3) Test elettrodermico (EAV, Vega test): si baserebbe su variazioni del potenziale elettrico cutaneo in seguito al contatto con alimenti non tollerati. 4) Test citotossico (cytotest, ALCAT-test): si valutano i cambiamenti nella morfologia dei leucociti posti su un vetrino, dopo l'aggiunta dell'alimento. 5) Biorisonanza: usa un apparec-chio che sarebbe in grado di filtrare le  onde "negative" emesse dall' organismo per rimandarle "riabilitate" al paziente. 6) Analisi del capello: è una specie di biorisonanza che evidenzierebbe le "dissonanze" memorizzate nel capello e dovute all'intolleranza alimentare. 7) IgG e immunocomplessi circolanti: si baserebbero sull'ipotesi che non tutte le reazioni immunologiche siano IgE mediate.

Complessivamente sono tutti test assolutamente non validati dalla scienza medica ufficiale. 
Nel caso specifico questi test, eseguiti purtroppo in maniera diffusa su tutto il territorio nazionale, sono da considerarsi vere e proprie truffe perpetrate spesso ai danni di soggetti in condizioni di “debolezza” anche culturale. Oltre al danno economico immediato
(ovviamente sono quasi tutte prestazioni di tipo privato) accentuato dal fatto di dover acquistare cibi e/o farmaci “naturali”, tali  test sono spesso responsabili di altri danni: psicologici, sociali ed anche clinici. Infatti, ad esempio  nei bambini, sono stati pubblicati casi di rachitismo o di carenza proteica dovuti a tali diete assolutamente incongrue e non giustificate. Un corretto comportamento medico non deve considerare valide in alcun modo queste tecniche diagnostiche e non può escludere indiscriminatamente  (soprattutto
in età evolutiva) interi gruppi di alimenti (latte, uovo, pomodoro) senza fondate motivazioni scientifiche. Tanti sintomi sopra riportati scompaiono dopo un corretto stile alimentare e in caso di sovrappeso/obesità sarebbe sufficiente ridurre le quantità di cibo,
modificare errori o “distrazioni alimentari” ed escludere alimenti confezionati del commercio contenenti additivi. Troppo semplice? A giudicare  dal fatturato legato alle presunte intolleranze alimentari sembra proprio di no!