La natura del nucleare...

A vent'anni dalla catastrofe nucleare di Cernobyl, il più grande incubo degli ecologisti si è trasformato in un sogno per gli animalisti: la vita selvatica è tornata prepotente nell'ampia fascia di trenta chilometri attorno al reattore esploso, vietata agli esseri umani.
Il livello di radiazioni in alcuni punti è letale, fino a 3.500 microroentgen l'ora, contro una dose tollerabile fra i 15 e i 19: ma non sembra affatto disturbare i cinghiali, le alci, i caprioli, i lupi, le volpi, le lepri, financo le linci e forse qualche orso - se ne sono viste delle impronte - migrati lì da regioni anche lontane, per godersi la pace di una zona dove gli esseri umani sono solo un ricordo.

''Non hanno alcuna paura di noi - raccontano Aleksandr Kotz e Dmitri Steshen, due coraggiosi che hanno deciso di avventurarsi nella foresta contaminata - casomai è vero il contrario". Un cinghiale riposa tranquillo su una collinetta, in realtà uno dei circa 800 tumuli eretti su altrettante fattorie colpite in pieno dalla nube radioattiva, e "bonificate" con palate di terra: ma che ancora fanno impazzire l'ago dei contatori Geiger. All'avvicinarsi dei due uomini, si alza minaccioso: non recede di un passo, quegli strani esseri a due gambe non gli sembrano forti abbastanza per rappresentare un pericolo. E in effetti i due uomini fanno prudentemente marcia indietro.

''Chi vive vicino alla zona interdetta - dicono Kotz e Steshen - ci ha raccontato che alci e altri animali arrivavano qui fin dalla Bielorussia: sembrava quasi una migrazione consapevole''.
La strada fra la centrale e Pripiat, la città-dormitorio evacuata in tutta fretta dai suoi 50.000 abitanti subito dopo il disastro e ora sporadicamente pattugliata da non più di cinque poliziotti - non c'è nulla da rubare, tutto è troppo radioattivo anche per il più coraggioso dei ladri - viene continuamente attraversata da animali selvaggi. Ci sono persino due mandrie di cavalli: devono essere i discendenti della coppia di Przewalski che nel 1992 gli scienziati liberarono nella zona per esaminare gli effetti delle radiazioni. Kotz e Steshen ne contano una sessantina, prima che uno stallone, seccato dalle attenzioni rivolte alle sue giumente, non li cacci in malo modo.


Bracconieri a volte arrivano nella zona interdetta: ma cercano soltanto gli animali giovanissimi, gli adulti hanno carni e pelli troppo radioattive per essere appetibili. Se riesce a superare i tre anni di età, qualunque alce è al sicuro dai fucili dell'uomo, qualunque cinghiale può circolare indisturbato. O quasi: con le prede sono tornati i predatori classici. La notte è punteggiata dagli ululati dei lupi, le numerosissime cove degli uccelli - ci sono anche delle aquile - sono insidiate dalle volpi, le micidiali linci colpiscono veloci e inesorabili.

"Subito dopo l'esplosione del reattore - ricorda Serghei Gashkak, radiobiologo che da anni studia quella riserva naturale spontanea - anche gli animali subirono duramente le conseguenze della radioattività. Il bosco ha preso il nome di 'foresta rossa' perché quattro ettari di foresta si disseccarono sul colpo; nelle aree più contaminate trovammo i cadaveri di molte bestie, in molte specie la riproduzione venne bloccata, in un'isola a sei chilometri dalla centrale i cavalli morirono quasi tutti e altri animali ebbero gravi problemi alla tiroide. Ma già la generazione successiva sembrava sana".

Ci sarà pure il plutonio nell'area intorno a Cernobyl, ma non ci sono pesticidi, non ci sono fumi industriali, non c'è traffico, non si bonificano più le paludi: non ci sono uomini. ''Abbiamo eseguito alcuni esperimenti - spiega Gashkak - e abbiamo scoperto che la fauna più stanziale e quella che si sposta molto hanno diversi gradi di radioattività, più elevata nei primi: ma che non sembra infastidire gli uni e gli altri.
La cosa più curiosa però è che mentre i topi locali vivono benissimo, e altrettanto a lungo di quelli di zone non contaminate, se ne portiamo di 'stranieri' soffrono subito. La differenza con i locali è molto evidente''. Gashkak afferma di aver registrato moltissime mutazioni nel dna, ma che non sembrano avere conseguenze sulla fisiologia o sulla capacità di riprodursi: niente linci a due teste, insomma.

Meno convinti sono altri ricercatori: sottolineano che i mutanti muoiono presto e vengono divorati prima che gli scienziati possano osservarli, e che gli studi vengono condotti sui grandi insiemi più che sui singoli individui. Ma ammettono che i problemi derivati dalla catastrofe sembrano largamente compensati dall'assenza umana: ''Forse dovremmo buttare scorie radioattive anche in Amazzonia, per scoraggiare gli sfruttatori senza scrupoli", scherza qualcuno.
[Fonte: NEWTON]

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